I servizi ecosistemici sono la nostra vita

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Apri il rubinetto ed esce l’acqua. Molto spesso sappiamo a stento che quell’acqua costa circa un millesimo di euro al litro, che paghiamo la società che la distribuisce. Non ci domandiamo da dove arriva: ovviamente dalle sorgenti. il produttore è la natura! Che non paghiamo, che ci offre dei servizi gratuiti. Sono i servizi ecosistemici, che ci fanno bere e respirare: acqua, ossigeno, piante, biodiversità, impollinazione, regolazione del clima, depurazione delle acque, panorami, benessere fisico… forniscono gli elementi di base al benessere delle nostre vite. Tutto deriva da lì, compresi i materiali per costruire gli oggetti più tecnologici.

Solo da poco tempo questi concetti si sono fatti largo nell’informazione non specialistica.

I mezzi di comunicazione di massa se ne sono occupati con una certa attenzione da cinque o sei anni. I quotidiani di maggiore diffusione introdussero suggestive tabelle che riportavano le stime del valore monetario dei vari ecosistemi. Valori stratosferici per la barriera corallina o le foreste di mangrovie, meno indagati altri habitat, forse perché meno appariscenti. È il tributo che si paga alla spettacolarizzazione dell’informazione, che – nell’altra faccia della stessa medaglia – produce un positivo coinvolgimento che può muovere la coscienza collettiva. Tanto per rimanere alle stime, il valore dei servizi ecosistemici e del “capitale naturale” mondiale supera i 50 trilioni di dollari per anno.

Ma al di là del valore economico, i servizi ecosistemici nascono dal buon funzionamento e dalla salute degli ecosistemi stessi. È importante essere coscienti che le nostre azioni indiscriminate di sovra-sfruttamento delle risorse naturali, del cambiamento dei principali assetti ecologici a scala globale, e dell’enorme riduzione della diversità della vita sulla Terra, non fanno altro che minare la nostra stessa sopravvivenza.

Stiamo parlando del benessere di vita dell’uomo, della sua permanenza in un mondo finito, con risorse finite.

Per le quali, al contrario, non è stato avvertito fino a tempi recentissimi il senso del limite. È chiaro che su questo versante si incrociano le competenze, le capacità, le sensibilità dei decisori politici che amministrano e assumono provvedimenti in nome della collettività. Da questo punto di vista, anche i settori formalmente più avanzati appaiono aggiogati all’interesse di parte, al tornaconto delle lobby, dalle convenienze contingenti. In ultima analisi la politica è governata dall’economia che segue gli indirizzi della finanza.

I vari incontri e trattati internazionali, per quanto salutati con generoso ottimismo, sono sempre un po’ più indietro di quello che suggeriscono i settori più aperti e sensibili del mondo occidentale, o quelli più tradizionali e sostenibili di certe culture ritenute arcaiche, o degli scienziati che indagano le sovrapposizioni tra economia e ambiente.

Come facciamo a rallentare la corsa alle trasformazioni territoriali senza freno, deregolamentate e basate sul profitto?
E a rendere chiaro che la natura non è una cosa, un materiale disponibile all’uso?
A spiegarlo a quei politici che pensano di essere ambientalisti perché piantano qualche albero?
Come facciamo a rendere chiaro che cielo e terra non sono beni in vendita?

Dobbiamo rifondare il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Attingere nuovi concetti da antichi comportamenti, oppure capovolgere il moderno assioma antropocentrico e illuminista su cui è fondato il pensiero occidentale e trovare la strada per una nuova antropologia culturale che ci riporti agli ancestrali concetti di sacralità della natura. È necessario inventare un decalogo laico, semplice, diffuso e condiviso, che definisca una nuova etica della terra. E non abbiamo più molto tempo.