Diplomazia ecologica: breve storia degli accordi tra Stati sull’ambiente

Phoresta / News  / Climate Change  / Diplomazia ecologica: breve storia degli accordi tra Stati sull’ambiente
diplomazia ecologica

Diplomazia ecologica: tutti hanno sentito parlare di accordo di Parigi o del protocollo di Kyoto, ma forse è meno noto il percorso che ha portato a queste intese internazionali.

Le conferenze globali sul clima e la sostenibilità sono sicuramente il frutto di un costante lavoro diplomatico tra gli Stati.

Non si parla più solo di confini territoriali o di commercio estero, ma di un nuovo argomento vitale per la nostra specie: la mitigazione del cambiamento climatico e la salvaguardia dell’ambiente.

L’attenzione sui cambiamenti climatici da parte della comunità internazionale comincia con l’istituzione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) nel 1988 promosso da due organismi delle Nazioni Unite: l’Organizzazione Meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP).

L’obiettivo dell’IPCC è esattamente quello di studiare il riscaldamento globale.

Il primo report dell’istituto, pubblicato nel 1990, evidenzia la relazione tra le emissioni antropogeniche di gas serra ed il clima.

Per la prima volta viene enunciata la necessità di limitare le emissioni di gas serra generate dall’uso di combustibile fossile al di fuori dei circoli accademici.

L’avvertimento riguarda soprattutto i paesi più industrializzati.

Da quel momento la questione è come passare dalle ricerche scientifiche alle azioni concrete da applicare.

Risulta chiarissimo che è assolutamente necessario il coinvolgimento diretto dei governi e degli stakeholder.

L’Earth Summit di Rio: il primo risultato della diplomazia ecologica

Il 12 giugno 1992 a Rio de Janeiro si tiene la prima Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED, United Nations Conference on Environment and Developmen) che definisce lo United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC o FCCC), la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

La convenzione è nota anche come Accordo di Rio e la conferenza è chiamata informalmente come Summit della Terra.

Per la prima volta i governi degli Stati cercano un percorso comune per affrontare il cambiamento climatico. Prima dell’incontro di Rio solo i ricercatori avevano la completa consapevolezza che il clima stava cambiando con imprevedibili conseguenze sulla nostra vita.

In quel primo incontro internazionale, 154 nazioni firmano la UNFCCC, che in quel momento ha un generico “obiettivo non vincolante” di ridurre le concentrazioni atmosferiche dei gas effetto serra per «prevenire interferenze antropogeniche pericolose con il sistema climatico terrestre».

Nel summit sono identificati i tre temi più urgenti:

  • le emissioni clima alteranti con conseguente riscaldamento globale con effetto il climate change,
  • perdita della biodiversità (biodiversity loss),
  • lo sviluppo sostenibile.

Gli accordi di Rio sono entrati in vigore il 21 marzo 1994 con le ratifiche di più di 50 Paesi.

Il summit di Rio è il frutto di un insistente lavoro di sensibilizzazione dei ricercatori che avevano realizzato scoperte scientifiche sul funzionamento della vita sulla Terra.

Le burocrazie, i negoziatori, i diplomatici pongono in agenda una questione mai affrontata prima: l’ambiente, e, conseguentemente, l’interrogativo su come realizzare uno sviluppo sostenibile a livello globale.

Inizia una vera e propria diplomazia ecologica  fatta di incontri, decisioni, accordi, patti, consultazioni.

Come in tutte le relazioni diplomatiche tra Stati, si manifestano anche le contraddizioni e le difese degli interessi particolaristici dei singoli Paesi. Nonostante sia subito evidente che la sfida ecologica crea problemi globali che richiedono azioni globali.

I problemi globali dell’ambiente.

Gli scienziati in 40 anni di studio hanno rilevato la complessità degli ecosistemi, all’interno dei quali i vari elementi interagiscono tra loro in modo estremamente connesso e ogni alterazione ne condiziona tutti gli elementi fisici e chimici, compresi aria, acqua e suolo.

I dati sono anche convalidati anche dalle osservazioni oggettive ricavate dal monitoraggio del nostro pianeta fatto dallo spazio, dai satelliti.

Ma l’evidenza scientifica più difficile da far accettare a livello politico ed economico, è che l’alterazione degli ecosistemi è generata dall’attività umana.

La nostra economia fatta di produzione di merci, di scambi monetari e di rendite finanziarie si intreccia alle modalità di funzionamento della Terra.

Questa relazione di causa effetto è così profonda e complessa che ancora oggi non abbiamo piena coscienza di tutte le implicazioni che genera.

A partire dal Earth Summit di Rio si inizia anche un percorso per definire nuovi criteri di valutazione della performance economica, che non può più essere misurata solo con i parametri tradizionali.

Oltre ai dati tradizionali di PIL, occupazione, salari, livello di tassazione devono essere considerate anche le diseconomie prodotte dai cambiamenti nell’ambiente, le cosiddette esternalità negative. Basti pensare ad alluvioni o incendi dovuti ad anomalie climatiche e che possono compromettere seriamente l’esistenza stessa degli impianti produttivi o delle abitazioni.

Solo avendo piena coscienza dei rischi e di dove avviene il punto di rottura dell’equilibrio si possono compiere le azioni correttive corrette. Ossia promuovere energia pulita, adottare nuove tecnologie, realizzare progetti di economia circolare e investire in ricerca.

Un’altra problematica che si è subito evidenziata è la palese contrapposizione tra paesi industrializzati da un lato e i paesi emergenti e in via di sviluppo d’altro.

Già a Rio è evidente la necessità di mettere in pratica azioni differenziate, con maggiori responsabilità a carico dei paesi più sviluppati in quanto maggiormente responsabili dell’emissione dei gas a effetto serra. Talvolta è altrettanto difficile far accettare questo onere ai rappresentanti dei governi dei paesi industrializzati e all’opinione pubblica.

Le Conferenze delle Parti

L’Earth Summit, quindi, segna un punto di svolta. Si crea la cognizione che la gestione della relazione di causa effetto tra vita “normale” dei cittadini, delle economie, degli Stati e il funzionamento della Terra hanno bisogno di un coordinamento globale politico e legislativo.

Sotto l’egida delle Nazioni Unite si sono indette annualmente le Conference of the Parties (Conferenze delle Parti), per monitorare i risultati dell’accordo di Rio, porre ulteriori obiettivi più vincolanti e per aggiornare l’agenda ambientale della comunità internazionale.

Le Conferenze delle Parti diventano sostanzialmente l’organismo decisionale dell’United Nations Framework Convention on Climate Change.

Il nome Conferenza delle Parti (COP) deriva dall’apertura di queste conferenze ai vari stakeholder, come enti finanziari, banche istituti di ricerca, ONG, e ai gestori dei territori (provincie, città), oltre che ai rappresentanti dei governi degli  Stati.

La prima COP si è tenuta dal 28 marzo al 7 aprile del 1995 a Berlino.

La COP1 ha semplicemente evidenziato la necessità che gli Stati iniziassero a valutare misure per la riduzione delle emissioni entro il 2000, cercando di stabilire anche le regole procedurali su decisioni e votazioni.

Il protocollo di Kyoto

Nel dicembre 1997 si tiene a Kyoto la COP3, in cui viene redatto il primo accordo internazionale per contrastare il riscaldamento climatico che è vincolante per i Paesi sottoscrittori.

Il Protocollo di Kyoto impegna i Paesi sottoscrittori ad una diminuzione quantitativa delle emissioni di gas ad effetto serra (anidride carbonica (CO2), metano (CH4), ossido di azoto (N2O), esafluoruro di zolfo (SF6), idrofluorocarburi (HFCs) e perfluorocarburi (PFCs), rispetto ai livelli del 1990, entro il 2012.

I paesi industriali devono, nel loro complesso, ridurre del 5,2%, mentre i paesi emergenti e in via di sviluppo non hanno nessun impegno definito.

Si applica il principio di “responsabilità comune ma differenziata” secondo il quale, i paesi industrializzati si fanno carico di maggiori responsabilità nel controllo delle emissioni, in quanto contribuiscono in larga misura all’emissione dei gas serra.

Il trattato entra in vigore solo il 16 febbraio 2005. Grazie alla ratifica del Protocollo da parte della Russia nel Novembre 2004 che permette di raggiungere le condizioni per la sua validità. Ossia la sottoscrizione di almeno 55 Nazioni, che complessivamente rappresentano non meno del 55% delle emissioni serra globali di origine antropica.

Il grande assente alla firma sono gli Stati Uniti.

L’obiettivo di riduzione dei gas serra non è stato raggiunto per la data prevista, come ben sappiamo.

Dopo una serie di altre COP, non particolarmente fruttuose, a dicembre 2012 a Doha in Quatar viene redatto un secondo accordo che prevede per i Paesi l’obbligo di riduzione fra il 25% e il 40%  delle emissioni dei gas serra rispetto ai livelli del 1990 in un periodo compreso tra il 2013 e il 2020.

Il Kyoto-bis viene però ratificato solo da Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia, responsabili insieme del 15-20% delle emissioni di gas serra.

Gli Usa restano i grandi assenti, insieme a India e Cina e ai paesi del Golfo che sono esentati dagli impegni.  Anche Nuova Zelanda, Giappone e Canada e Russia abbandonano il protocollo di Kyoto.

La COP18 di Doha è estremante deludente: un passo indietro notevole, è evidente che gli interessi nazionali sono ancora prioritari rispetto alla questione climatica.

Il protocollo di Kyoto è stato una rivoluzione

Ma il protocollo di Kyoto è comunque importante perché è il primo tentativo di formalizzare un accordo vincolate. Le parti che lo sottoscrivono si impegnano ad agire per contenere le emissioni clima alteranti.

Nel protocollo sono indicate una serie di azioni concrete e misure per la mitigazione climatica.

Per realizzare le riduzioni delle emissioni di gas clima alteranti, i Paesi devono migliorare l’efficienza delle centrali elettriche, incentivare il risparmio energetico, incrementare le fonti rinnovabili di energia ed aumentare le superfici forestali che assorbono l’anidride carbonica.

E per la prima volta si introduce il meccanismo di compensazione della CO2 e si dà la possibilità ai vari soggetti pubblici e privati dei vari Stati di accedere al mercato dei crediti di carbonio. 

Dopo Kyoto i report dell’IPCC sono usati da governi e, soprattutto, dalle Banche Centrali per iniziare politiche di mitigazione del cambiamento climatico e per introdurre il concetto di rischio ambientale in economia.

Il trattato di Kyoto è quindi soprattutto una rivoluzione culturale, e sebbene gli Stati abbiamo aderito in maniera discontinua e con azioni non sempre tempestive ed efficace, ormai il tema ambientale è sul tavolo e non si può prescindere dallo stesso anche nella regolazione dei rapporti tra Stati.  La diplomazia ecologica è più importante che mai.

L’ Accordo di Parigi COP 21

Nel 2015, i rappresentanti di 195 Stati si trovano a Parigi per la COP21.

Finalmente per la prima volta che si riconosce l’assoluto bisogno di cooperare per affrontarle perdite e le conseguenze dovute agli effetti negativi del surriscaldamento globale

Le emergenze e i rischi collegati al cambiamento climatico si fanno sempre più visibili ed evidenti. Gli scienziati dimostrano che la situazione, se non è affrontata concretamente con decisioni politiche, porta a scenari devastanti.

Il trattato è entrato in vigore il 4 novembre 2016.

Si inquadra nella cornice più ampia definita dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, nella lista degli obiettivi il numero   13 riguarda la “Lotta contro il cambiamento climatico”. L’Agenda 2030 è stata approvata all’unanimità nel settembre 2015 e considera anche aspetti sociali e di equità economica.

A Parigi si trova un accordo che pone obiettivi ambiziosi e giuridicamente vincolanti da realizzare entro il 2020:

  • mantenere dei 2 gradi Celsius l’aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale, puntando ad un aumento massimo della temperatura di 1,5°C.
  • Ridurre le emissioni globali di CO2.
  • I Paesi, devono riunirsi ogni cinque anni per monitorare i risultati raggiunti,
  • Gli obiettivi di riduzione devono essere chiari e misurabili.
  • I paesi più poveri devono ricevere un sostegno internazionale continuo per contribuire alla mitigazione del riscaldamento globale. Si mette di principio fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo.

Anche Cina e Stati Uniti, le due potenze responsabili del 45% delle emissioni totali di CO2, iniziano a collaborare con gli altri Stati per realizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni clima alteranti.

Un momento critico è avvenuto nel 2019:  gli Stati Uniti escono dall’accordo di Parigi.

L’amministrazione Trump, infatti,  considerava un onere per l’economia americana, l’attuazione degli obiettivi del trattato che era stato firmato da Obama.

La decisione è immediatamente revocata dal presidente Joe Biden, che ha posto la questione ambientale come uno dei temi principali della sua gestione.

L’opinione pubblica a questo punto è sensibile. Il tema ambientale deve essere affrontato seriamente e con convinzione da tutti i governi, soprattutto nei Paesi più industrializzati,

Cosa è successo dopo Parigi

Sono passati più di cinque anni dalla stipula dell’accordo di Parigi.

I risultati non sono eccellenti, ci sono molte questioni che restano quasi praticamente immutate, come il ricorso ai combustibili fossili.

La pandemia Covid19, inoltre, ha messo in secondo piano l’interesse sulle problematiche legate al clima.

Attualmente l’attenzione è tutta rivolta verso la prossima COP26 che si terrà a Glasgow. I vari Paesi stanno definendo gli obiettivi di riduzione dell’emissione e di sostituzione di carbone e petrolio verso energie più pulite.

Ma qualcosa è cambiato.

L’opinione pubblica è molto più sensibile ai temi legati alla sostenibilità ambientale.

È una questione molto è sentita dalle generazioni più giovani, che condiziona le loro scelte di consumo e di vita.

Inoltre, il progressivo coinvolgimento autonomo e diretto di imprese, stakeholder e singoli cittadini nell’assumere decisioni che cambiano i modelli produttivi o di vita nel rispetto dell’ambiente, costringe i governi ad avere un atteggiamento proattivo verso le azioni da intraprendere.

Un po’ di ottimismo

Dal primo Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, i governi, le imprese e le istituzioni finanziarie, hanno inglobato sempre di più le questioni climatiche nei processi decisionali.

Nessuna politica, e nessuna attività può prescindere da una gestione dell’impatto delle attività umane sul clima e sull’ambiente.

La finanza, ad esempio, è stato uno dei primi settori a reagire ed inglobale i parametri non economici nella definizione dei rating delle aziende o delle istituzioni.

Gli ESG, le informazioni non economiche relative a Enviroment (Ambiente), Social (Sociale) e Governance stanno diventando sempre più importante nella definizione del valore delle aziende.

Il Fondo Monetario Internazionale parla di finanza verde e invita le banche centrali a fare inserire nei rating delle rispettive banche il rischio ambientale.

Le posizioni conservative dei governi adesso potrebbero essere controproducenti per il benessere degli Stati.

La crescita sostenibile si ottiene solo se si comprende che l’economia. Così come la si è considerata sino ad oggi, non funziona più. Ci vogliono altri indicatori di tipo qualitativo per stimare il benessere di una società.

Misurare la solidità di imprese, istituzioni e Stati solamente con il denaro non permette più di capire se essi possono offrire delle garanzie per il futuro.

L’equilibrio dei prezzi basato solo sulla domanda e offerta, non considera il pagamento dei servizi ecosistemici. Quindi la mitigazione del cambiamento climatico e la conservazione o il contenimento della perdita della biodiversità.

Un altro elemento da considerare è che la battaglia per ridurre il riscaldamento del clima e avviare processi di economia circolare richiede un grande investimento. In ricerca, sviluppo, tecnologia e formazione.

Saranno questi gli elementi su cui si costruiranno i vantaggi competitivi delle Nazioni.

Se la politica ed i governi si arroccheranno su posizioni conservative, sarà probabile che invece di sostenere l’interesse nazionale, ne determino, invece, il declino.

 

 

Fonti:

– sito web del Ministero dell’Ambiente
– Testo integrale del Protocollo di Kyoto in Italiano
– sito dell’UNFCCC

– Sito delle Camera  https://www.camera.it/cartellecomuni/leg15/RapportoAttivitaCommissioni/testi/08/08_cap04_sch01.htm