All we can eat! (Quanta natura possiamo mangiare?)

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Ci sono 7.6 miliardi di persone come me e voi al mondo. Fra soli 30 anni ce ne saranno 2 miliardi in più.

Viviamo in un mondo in cui i cambiamenti climatici non ci consentiranno più di produrre e consumare come abbiamo sempre fatto.

Cosa possiamo fare allora? Lo chiediamo a Mauro Balboni agronomo (autore del libro ‘Il pianeta Mangiato, Dissensi Edizioni, 2017) che per anni ha lavorato ai vertici dell’industria agroalimentare.

D- Che cosa serve per produrre in tutto il mondo alimenti e bevande che consumiamo ogni giorno?

R- Secondo dati FAO abbiamo bisogno del 50% delle terre emerse (escludendo calotte glaciali e deserti) la maggior parte delle quali, 3,5 miliardi di ettari, dobbiamo destinarli al pascolo: il resto alla coltivazione delle piante. In più ogni anno abbiamo bisogno del 70% dell’acqua dolce presente sulla terra.

Infine centinaia di milioni di dollari per trasportare il cibo da dove si produce a dove si consuma.

D- Qual è la filiera alimentare che ha bisogno di più risorse?

R-La maggior parte delle fonti, inclusa la FAO, ci dice che si tratta della filiera dei prodotti di origine animale. Senza però dimenticare che ci sono filiere e filiere e non sempre i dati pubblicizzati sui media rappresentano tutte le realtà produttive: famoso il caso dei 15.000 litri di acqua per kg di carne di manzo, mentre ricercatori italiani hanno mostrato che si tratta di consumi inferiori, anche se comunque importanti. Serve molto spazio, acqua ed energia per coltivare foraggi e sementi necessarie ad alimentare gli animali. Attenzione però, sbagliamo se pensiamo che solo gli allevamenti intensivi siano la causa principale di questi consumi. Per esempio, se consideriamo la risorsa “terra” intesa come spazio fisico, la maggior parte delle risorse sono utilizzate da pascoli, pastoralismo (NDR – Modo di vivere e sistema culturale. Nel pastoralismo rientrano i fenomeni dell’alpeggio, della transumanza e del pascolo vagante) e altre forme di allevamento allo stato brado o semi-brado.

D- Limitare il numero dei capi allevati si traduce in un minor impatto ambientale?

R- Sì, si dovrebbe rallentare l’intensità con cui si producono alimenti di origine animale. Questo aiuterebbe a usare in maniera più razionale le risorse naturali.

D- Tutto il cibo che produciamo viene effettivamente consumato?

R- No, purtroppo enormi quantità cibo vengono buttate. La FAO stima che 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo ogni anno vengono persi o sprecati. È importante specificare questo: per cibo perso intendiamo la perdita delle materie prime che potenzialmente potrebbero diventare cibo. Purtroppo per colpa di tecnologie poco sviluppate non lo diventeranno mai.  Di solito si perdono durante le fasi di produzione in campo o durante quelle di conservazione. Questo succede soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Nei paesi più ricchi e industrializzati la maggior parte del cibo invece non si perde, si butta. Si produce, lo si prepara per il consumo e spesso quando è ancora pronto per essere mangiato lo gettiamo.

In Italia ogni anno 149 kg di cibo pro capite finisce nell’immondizia. Ne buttiamo dai 10 ai 20 milioni di tonnellate all’anno. I responsabili siamo noi consumatori e la grande distribuzione. Per esempio, volendo prodotti sempre belli e uguali tutto l’anno finiamo per gettare enormi quantità di cibo buono ma poco bello a vedersi.

D- Quali sono le soluzioni per limitare gli sprechi alimentari?

R- Credo che nei paesi più ricchi si dovrebbe mettere in discussione la politica del “produrre ad ogni costo”. Non abbiamo bisogno di produrre quantità maggiori di cibo, ma di gestire al meglio quello che già produciamo. Un grande aiuto in tal senso può venire dall’educazione alimentare delle persone, iniziando già nelle scuole. Si dovrebbe insegnare a tutti quanto costa produrre e distribuire il cibo, quanto inquinano i vari processi produttivi, cosa si intende per data di scadenza e molto altro. Io inizierei a insegnarlo fin dall’asilo. La creazione di consumatori più consapevoli può far sì che molti sprechi e consumi inutili vengano eliminati dal buon senso del consumatore. Creare delle abitudini corrette nei consumatori penso sia più efficace di qualsiasi legge o norma.

D- E nei paesi più poveri?

R- Ottimizzare i processi produttivi per trasformare la maggior quantità di materia prima in un prodotto finito sano e di qualità. Noi paesi ricchi dovremmo proporci di condividere le nostre conoscenze tecniche e assistenza in campo.

D- Il cibo ha un valore di mercato, ma rispecchia il suo reale costo di produzione?

R- Assolutamente no, noi non paghiamo mai il reale costo del cibo. Per esempio il prezzo di vendita non tiene conto delle esternalità negative, cioè degli effetti negativi sull’ambiente e l’economia che si sono creati producendo un determinato bene. Il ribasso dei prezzi del cibo è dannoso sia per il consumatore che viene incentivato a comprare e mangiare di più sia per il produttore che in media riceve solo un quinto dal prezzo finale di vendita. La grande distribuzione ci impone di consumare sempre di più e pretende che chi produce il cibo lo faccia con sempre minor margine di guadagno.

D- Non si conteggiano gli effetti negativi, ma nemmeno quelli positivi…

R- Esatto, questo è il limite più grande della nostra economia. Mentre non ci facciamo domande sul perché il cibo costa poco, ce ne poniamo tantissime sul perché costa tanto. Qui nasce il paradosso sul cibo: quello più adatto a noi è anche quello meno accessibile. Infatti, il cibo “spazzatura” costa meno perché molto spesso è prodotto con materie prime scadenti. Spesso lo si produce in zone dove i controlli sull’ambiente e sui lavoratori sono bassi.

I prodotti certificati, in genere, si producono con ottime materie prime e in maniera sostenibile per l’ambiente e per chi lavora, ma sono inaccessibili alla maggior parte della gente perché il loro costo è decisamente troppo alto.

D- Quindi produrre e consumare in maniera più sostenibile non viene sempre valorizzato dal consumatore.

R- Purtroppo non sempre. Non vengono riconosciuti i benefici apportati all’ambiente e in generale il lavoro fornito della natura, i cosiddetti Servizi Ecosistemici. Diamo per scontato che acqua, cibo e aria pulita siano illimitati e possiamo averli quando vogliamo al solo prezzo di mercato. Non sappiamo che tutto ciò che abbiamo dipende dalla salubrità del nostro pianeta e che le nostre scelte possono metterla a rischio.

Non abbiamo chiaro il concetto per cui le mie scelte di consumo e di stile di vita hanno una conseguenza sugli altri e sull’ambiente. Così come gli atteggiamenti delle altre persone hanno delle conseguenze su di me.

D- Cosa pensa sia meglio fare per poter cambiare il modo in cui i consumatori vedono e scelgono il cibo?

R- Penso sia necessario sensibilizzare i consumatori attraverso la conoscenza. Ritengo indispensabile l’introduzione di Educazione Alimentare nelle scuole, fin dall’asilo. Creare generazioni di consumatori più responsabili e consapevoli è una soluzione valida nel lungo periodo. Sono certo che sia infinitamente più efficace rispetto alla creazione di norme o leggi.

D- In questi anni si stanno scoprendo nuovi modi per produrre cibo, come ad esempio le coltivazioni su suoli artificiali e l’allevamento degli insetti. L’agricoltura sta cambiando rapidamente volto e i consumatori in genere guardano con timore a queste rivoluzioni; è giusto preoccuparsi?

R-Penso che la diffidenza di noi consumatori sia colpa di un’informazione distorta e non sempre corretta. I metodi di coltivazione che usiamo attualmente non sono adatti a un mondo che sta cambiando rapidamente e non sarà più come prima. Consumatori e produttori devono adattarsi ai cambiamenti, non possiamo avere l’illusione che nuovi problemi si risolvano solo con vecchie soluzioni.

Parlando di insetti per esempio, con le loro proteine possiamo produrre alimenti per l’uomo e gli animali, senza bisogno di occupare superfici enormi di terreno e sprecare tonnellate di acqua per coltivare i cereali e leguminose come la soia.

In zone come la California e l’Europa del sud la siccità e la desertificazione ci costringeranno a rivedere modelli di coltivazione consolidati. In alcune zone a causa della mancanza di acqua e fertilità, dovuta a processi degradativi del terreno fertile, non sarà più possibile coltivare la terra.

Inoltre, dobbiamo renderci conto che entro i prossimi 30 anni, altri 2 miliardi in più di persone vorranno permettersi di consumare come noi. Sappiamo già che ciò non sarà sostenibile, non potremmo fornire carne, latticini e pesce a così tante persone senza causare danni ancora maggiori all’ambiente. Però avranno il potere d’acquisto per farlo; è giusto allora sfruttare così tanto un pianeta già profondamente segnato?

Ci renderemo conto di quanto gli equilibri della natura siano fragili e di come il denaro non ha il potere di muoverli. Penso che quando dagli scaffali scompariranno alcuni prodotti e altri saranno troppo cari per essere comprati le remore di natura culturale cominceranno a scomparire. Scopriremo allora che si può vivere, mangiare, produrre e consumare in modo diverso. Sarebbe meglio però non arrivare fino a quel punto e iniziare ad accettare da adesso i cambiamenti.

Per la cronaca, ho assaggiato hamburger, nuggets e polpette fatte con farina di insetti. Penso che se negli ultimi anni ci siamo abituati a mangiare pesce crudo ci possiamo abituare anche a questo. Alla fine le ho trovate molto gustose! Provare per credere.

Ringraziamo il Dott.Mauro Balboni per  le sue preziose informazioni su temi così rilevanti. Vi è venuta voglia di assaggiare polpette di insetti?